L’ultima colonia

La Siberia brucia.

La Groenlandia fonde.

Tutto più veloce e tutto più fuori controllo di quanto fosse stato prevedibile.

Bruciano le foreste siberiane da diversi mesi e il fumo, che non conosce confini, ha attraversato lo Stretto di Bering, raggiunto il Nord America e il Canada.

La materia distrutta e ricomposta in black carbon, la fuliggine di ciò che erano 2,7 milioni di ettari di alberi bruciati, si deposita e converte in angoscianti sfumature di grigio il bianco dei ghiacci che intanto si fondono.

Tanto fuoco e tanta acqua.

Gorgogliano rivi e fiumi verso gli oceani. Nella sola giornata di mercoledì 31 luglio se ne sono andate 10 miliardi di tonnellate di ghiaccio; a fine luglio la perdita netta di ghiaccio è stata di circa 197 miliardi di tonnellate

Ed è solo l’inizio.

Si dovevano ridurre le emissioni di CO2, ma gli incendi vastissimi ne immetteranno in atmosfera quantità enormi;

si doveva ridurre il riscaldamento globale, ma il blu che sostituisce il bianco e il grigio che si deposita sul ghiaccio ridurranno l’albedo, la capacità riflettente, e aumenteranno la capacità assorbente ed il riscaldamento aumenterà.

Nel Daisy World di Lovelock, il pianeta-modello, ricoperto da margherite bianche e margherite nere dalla proprietà di riflettere o assorbire l’energia del sole e così mantenere l’omeostasi che permette la vita sul pianeta in un continuo processo di autoregolamentazione, l’equilibrio è definitivamente rotto ed il grande nord è popolato dalle margherite nere che accumulano quel calore che brucia, scioglie, annienta.

La specie più perturbatrice di tutte ha innescato un processo incommensurabilmente distruttivo per molt* e lautamente remunerativo per pochi.

C’è sempre qualcuno che ride quando c’è un terremoto; lo sconquasso di adesso è l’inarrestabile disgelo dove invece di vedere la catastrofe ecologica ed umana, qualcuno vede nuove rotte commericiali, porti, hub, insediamenti.

L’ultima frontiera è là; nelle foreste della Siberia e fra la Groenlandia, l’Alaska, il Mare di Barents  e lo Stretto di Bering.

Là è la nuova guerra coloniale.

Trump con le concessioni alle trivellazioni al largo delle coste dell’Alaska; Putin che punta dritto al controllo del circolo polare; nuove vie per le navi e il trasporto di gas liquefatto in collaborazione/competizione con la Cina che guarda ai preziosi tesori del sottosuolo, liquidi, solidi e di valore: gas e petrolio, certo, ma anche diamanti, platino, oro, zaffiri, zinco… e poi ci sono le desiderate “terre rare”, quelle importanti per l’industria elettronica dei microprocessori; poi c’è il nichel e poi l’uranio… e chissà che altro. Occorrono scavi, prospezioni e concessioni.

Tutto già drammaticamente visto nella storia passata quando era l’Europa ad arrivare e a devastare a casa d’altri.

Tra gli “altri”, qui ci sono gli Inuit; scrive Marzio Mian nel libro “Artico. La battaglia per il Grande Nord”: “Nell’estremo Nord e in Groenlandia, si aprono strategiche nuove rotte mercantili. Ampie e pescose regioni marittime. Ciclopiche infrastrutture (nuovi porti, pipelines) per le estrazioni. Una nuova e spietata corsa neocoloniale ai danni degli inuit e delle altre popolazioni autoctone. Civiltà millenarie che soccombono alla modernità.

L’Artico per gli Inuit è un paesaggio spirituale entro un paesaggio fisico. Un mondo che quindi non può avere confini, così come non li ha il cielo; mentre l’imprecisione dei confini artici è ciò che ossessiona e affascina l’uomo bianco che vuole porre ordine e spartire le quote, decidere al più presto a chi spetta cosa. Sono mondi incompatibili, ognuno è per l’altro una specie di primitivo.”

Per l’uno è primitivo l’Inuit che evolve la sua vita in sintonia con l’ambiente che gli da forma; per l’altro è primitivo il bianco che infine distrugge la sua matrice, perchè uscito dalla preistoria costruendo una storia di conquiste, colonizzazioni e, ora, catastrofi.

Qualche sera fa a Nova Gorica, in Slovenia, ascoltavamo gli Huun-Huur-Tu gruppo di Tuva, repubblica della federazione russa, Siberia dell’est. Tutti i loro canti sono vibrazioni delle corde vocali che incarnano la natura del loro intorno; cielo, terra, animali, umani e loro storie. Nello scorrere del concerto, per doloroso contrasto, venivano alla mente le immagini costruite da Natalia Negnyurova e che riportiamo in questo post: la Siberia che brucia.

La fine delle voci, dei canti, delle storie, della storia.

Gli evoluzionisti misurano il “progresso” di una specie a posteriori, cioè dopo che la specie si è estinta.

Ricorda Telmo Pievani , citando Diamond, che molte civiltà sono andate inesorabilmente incontro alla catastrofe seguendo ostinatamente alcuni comportamenti controproducenti: sfruttamento crescente delle risorse, occultamento dei segnali critici, crescita eccessiva della popolazione, sviamento dell’attenzione verso nemici esterni, accumulo di tensioni e crollo improvviso a causa di crisi ambientali…

Lo scrittore di “Educazione siberiana”, Nicolai Lillin, scrive che gli incendi sono stati a lungo ignorati e la gravità della situazione continua ad esserlo. E oggi il Manifesto ricordandoci che il fuoco si allarga e Mosca se ne infischia insinua ombre cinesi (colluse con la criminalità russa) interessate a disboscare per ripiantare specie di maggior interesse commerciale…. Non conosciamo forse la sorte della foresta amazzonica per mano di Bolsonaro?

Ma queste colonie saranno le ultime, almeno su questo pianeta. Dopodichè, come scrive ancora Pievani:Inseguiti dallo sdegno della Nemesi per le ingiustizie commesse, ci dilegueremo e ci diffonderemo su altri sistemi e in altre galassie, sfruttando i loro pianeti “Pandora” ancora ecologicamente sapienti, spargendo ancora un seme nello Spazio, prima che il nostro mondo diventi del tutto inospitale. Se poi tutto ciò sarà un bene o meno per le altre galassie è un’altra questione.

 

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