A venerdì

Venerdì ci incontriamo con Donatella Cozzi, antropologa, per parlare di quella cosa che chiamiamo “depressione” e di tutto quello che a questa gira intorno.
Avevamo incontrato Donatella nel lontano 1992,  nell’ambito di una rassegna (“Dire, fare, baciare… tecnica, mutamento”) che avevamo organizzato al Centro Sociale Autogestito di Via Volturno a Udine. Lei, allora, stava proprio lavorando al testo, poi pubblicato nel 2007 con il titolo “Le imperfezioni del silenzio- riflessioni antropologiche sulla depressione femminile in un’area alpina”.
L’area alpina è quella della Carnia; il suo punto di riferimento è il centro di salute mentale di Tolmezzo, punto di arrivo di persone dolenti, spezzate, perse.
Dalle loro “storie” emergono relazioni, aspirazioni soggettive, trame sociali e famigliari, che la visione antropologica restituisce in modo forse meno parziale di quanto possano fare altre discipline e con un taglio, nel caso della nostra ospite, non certo accademico, ma di profonda sensibilità.
Così inizia il suo lavoro: “Anche facendo un enorme sforzo, non potrei scindere il mio percorso biografico e di studi dall’interesse per il disagio mentale e per la psichiatria di cui questo saggio segna il punto culminante e insieme il calmo distacco. Ho avuto un motivo importante per perseguire questo interesse, la ‘malattia’ di mia madre. Un madre e una malattia biograficamente inscindibili, ingombranti, a volte titaniche e minacciose, dolenti e affascinanti, strenuamente indomite e intrusive, altre volte sorprendentemente creative e scatenanti all’esplorazione del mondo. Di lei, tutto quello che vi lascio sapere è che è una sfida formidabile. Tutto quello che sono o non sarò lo devo a lei, e al tenace amore di mio padre che le è rimasto sempre accanto. E’ la signora delle mie lacrime, la matrice della mia insicurezza, la nutrice inconsapevole della mia forza…”
Un incipit ben diverso da quello che abbiamo letto quest’estate come premessa da una iniziativa tenutasi sempre in Carnia e sempre sullo stesso ‘nodo’. Leggete qua: “Se la depressione colpisce una donna, come reagisce chi gli sta vicino? Quando un uomo uccide la propria partner per gelosia, cosa pensiamo? Quando una donna è preda della droga, del gioco d’azzardo, del vizio, come ci comportiamo? Quando una donna è diversa dalle nostre aspettative cosa facciamo? E se non gli interessano gli uomini?” Una cosa vergognosa, un approccio falsato e sessista oltre che semplicemente irritante per tutti gli stereotipi peggiori che si porta dentro.
Sbollita l’incazzatura, abbiamo continuato a pensare a quale sarebbe stato un avvicinamento corretto; e ci siamo ricordate del lavoro di Donatella Cozzi…
“… Allora, ragionare sulla depressione, per le donne (e gli uomini) del nostro tempo, rimanda in senso pieno non solo a tutte le condizioni che mortificano, umiliano, rattrappiscono la nostra umanità, e che chiedono una risposta capace di dispiegarsi anche sul piano del sociale e del politico, ma svela anche quella logica del dominio (e i suoi dispositivi) secondo la quale “il dolore va fluidificato, poichè di fronte alla violenza della perdita si fa collera e passa all’atto. Questa corrosività istituzionale del femminile sembra essere letta solo nei luoghi in cui esso è costretto: già plasmato fra norme e ruoli dunque, e mai nei luoghi della sua forza, tutta ancora da controllare. Una lettura sempre sul filo dello scacco, mai su quella capacità intrinseca di rendere più problematico e conflittuale il reale”. L’auspicio è che il nostro ragionare comune, nella pluralità di voci e di prospettive disciplinari, diventi legante dinamico di questa corrosività“.
Corrosive, ecco; infine,  noi per il nostro bene.

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