Risonanze
Come con la radiografia si vede dove c’è la frattura, con la risonanza magnetica funzionale, si vede dove c’è il razzismo o la propensione al razzismo.
Questo, stando alla ricerca del neuropsicologo dell’università di Ginevra Tobias Brosch che individua in una data area cerebrale la sede di atteggiamenti razzisti.
Molt*, come il dottor Brosch, esaltat* dai mezzi endoscopici messi a disposizione dalla tecnologia, periodicamente sognano di vedere dove sta quella determinata cosa nella testa; dov’è il razzismo, dov’è l’indole criminale, l’alcolismo, il sessismo o la tossicodipendenza…
Poi, scoperto il punto, ecco il titolo elaborato da una pessima divulgazione: “Il razzismo si trova in un’area del cervello”, (come se qualcosa che attiene alle passioni, al pensare, al parlare, all’esprimere e poi all’agire consequenziale, potesse avere origine al di fuori di un cervello!).
E la scoperta dell’acqua calda, di volta in volta, fa ribollire tribunali ed enti interessati -come sempre- a definire e stigamtizzare categorie di persone riassumendo la funzione che a suo tempo ebbero le misurazioni craniali di lombrosiana memoria.
Allora la questione non è più la scoperta ma l’interpretazione che se ne vuole dare, a seconda che consideriamo il cervello come un organo composto da aree funzionali, ottimizzate quanto si vuole, ma ancorate e soggette comunque al dato biologico; oppure il risultato, ancora in divenire, di una storia evolutiva che lo rende un organo stratificato ma plastico, conservativo ma creativo.
Insomma, la differenza fra una interpretazione riduzionista – e razzista – e una più complessa e indefinita, più plastica e, se pur ancorata ad un substrato di vincoli biologici, pur sempre modificabile.
Neuroscienze of Race è il titolo di uno studio pubblicato a suo tempo su “Nature Neuroscience” di cui riferiva anche Telmo Pievani sul numero di ottobre di Le Scienze.
Lo studio di Jennifer Kubota, Mahazarin Banji e Elisabeth Phelps descrive le reazioni cerebrali di un uomo statunitense bianco cui viene mostrata la fisionimia di un uomo di colore. Con la zona per il riconoscimento dei volti, si legge, si attiva subito l’amigdala, coinvolta nelle elaborazioni connesse ad emozioni negative….Il sistema si sintonizza intuitivamente sulla difensiva. Quell'”altro” sconosciuto… non appartiene al “noi” di cui facciamo parte”. Ma, e qui vale la pena di riportare alcuni passi della descrizione di Pievani: “A questo punto succede qualcosa di interessante. In un baleno si attiva, in alcuni soggetti, un’area della corteccia cerebrale che registra un conflitto. Qualcosa cerca di neutralizzare la reazione emotiva iniziale, negativa. Lo scontro è gestito dalla corteccia prefrontale dorsolaterale, che se ben educata può avere il sopravvento, riportando il cervello alla ragione, cioè inducendo il soggetto ad avere giudizi ed atteggiamenti egualitari e non razzisti, nonostante il senso inziale di minaccia.”
L’amigdala, area sottocorticale, interviene come struttura biologica più antica, forse, suggerisce lo studio, come quella che ha garantito la nostra sopravvivenza quando ce n’era bisogno ed entra in una sorta di relazione dialettica con quella che noi riteniamo un’area “superiore” ovvero quel tratto evolutivamente recente che regola le emozioni e che risente di più dell’educazione e del ragionamento.
Guardato così, il pregiudizio razzista è del tutto modulabile, può avere una base biologica ma è soggetto a regolazione culturale.
Perciò razzisti si diventa a seconda che vince la corteccia o l’amigdala, l’atavismo o il ragionamento e tutto si impara.
C’è speranza all’orizzonte.