8 marzo con le donne del Kurdistan
Quando ci siamo incontrate con Haskar Kirmizigul, abbiamo fatto uno striscione che abbiamo appeso nella sala della conferenza: le parole curde Jîn Jiyan Azadî, Donne Vita Libertà.
Quello stesso striscione lo abbiamo portato in montagna, appoggiato sulla terra, legato agli alberi ed appeso ai balconi delle nostre case perchè vorremmo che quelle parole regnassero dappertutto.
In montagna per un omaggio alle donne combattenti del Kurdistan che devono fare dei monti la loro casa, ma anche un omaggio al principio di convivenza delle diversità che l’esperimento del Rojava sta mettendo a punto.
Sono i monti della Val di Resia nei quali abbiamo fatto quelle foto.
La Val di Resia è un mondo a sé, una lingua, una musica, una storia a sé che però amministrativamente ed istituzionalmente si vuole legato ad una regione -il Friuli Venezia Giulia- che a sua volta è un coagulo di mondi a sé: il Friuli, l’area veneta o venetofona, l’area giuliana, l’area triestina e via discorrendo che poi ognuno di questi conta a sua volta mondi a sé, tutti cancellati e omologati sotto l’autorità dello stato che si chiama Italia.
Ciò che narrano le donne kurde del Rojava fa capire a noi, costrett* ancora ad ascoltare i deliri leghisti e fascisti, che si può -e si deve- esaltare la propria diversità senza negare quella dell’altr*.
Un’altra cosa poi ci fa capire, ed è rivolta alle donne, tutte: che senza l’autodifesa non c’è futuro.
Potevano forse aspettare che i combattenti le liberassero dallo spettro dell’Isis, poi, potevano aspettare che in una situazione normalizzata, qualcuno gentilmente tutelasse e riconoscesse istanze e diritti correttamente richiesti per le vie che la legge avesse messo loro a disposizione.
Noi, nell’avanzato occidente così facciamo, aspirando a ridicole quote rosa, assistendo alla regressione di quel poco conquistato come la possibilità di abortire in sicurezza, in ogni caso restando cronicamente mal retribuite, sempre mal giudicate e con il virtuale velo della sottomissione sulla testa.
C’è una differenza fondamentale, cruciale, fondante, nel dire che non c’è libertà per un popolo se non c’è libertà delle donne.
Loro lo hanno messo nelle premesse della loro battaglia, e ci hanno messo anche l’amore per il territorio, devastato, annichilito, anch’esso senza futuro a causa del turbocapitalismo che tutto consuma.
Ci suggeriscono perciò un ritorno di sintonia con la natura: che cosa siamo noi senza l’ambiente che ci supporta?
Possiamo essere la tecnologia che lo trascende ma che alla fine divora se stessa e con sé i suoi artefici semplicemente perchè ha predato tutte le risorse che l’hanno resa possibile. E ormai sono risorse vitali, sono l’acqua, l’aria e ancora la terra.
Kobane, grazie alla sua resistenza, ha vinto, ma adesso è disseminata di mine ed ha bisogno di tutto il nostro aiuto; sarà ricostruita in modo ecologico, ha detto Haskar; di sicuro sarà un centro di convivenza.
L’America cercò di ricostruire New Orleans distrutta dall’uragano Katrina, a misura di bianco benestante, cacciando le persone di colore che lì avevano vissuto; uno stato, capitalista o no, fa così, privilegia chi detiene soldi e dominio; che cosa fa l’Europa con la marea di migranti che bussano alle sue porte? Le chiude.
Kobane chiude le porte a chi vuole esercitare coercizione, prevaricazione e dominio; le scelte passano per le assemblee.
E le scelte che riguardano le donne passano per le assemblee delle donne.
Loro dicono che la loro lotta non è solo per sé stesse, è per l’umanità.
E’ vero. Occorre una buona teoria per sviluppare una buona pratica. Che si chiami ecologia sociale o confederalismo democratico, le donne ne sono comunque l’anima.
Cogliamo perciò l’appello per questo otto marzo: siamo con le donne di Kobane, con le donne del Kurdistan e con tutte le donne resistenti, battagliere e ribelli; insieme autodeterministicamente.