Globali e virali
Prendiamo a prestito il titolo del bel libro di David Quammen uscito nel 2012: “Spillover”. La traduzione letterale è “tracimazione”; in senso ecologico o epidemiologico questo termine indica il momento in cui un patogeno passa da una specie ad un’altra. Il sottotitolo dell’edizione originale, poi scomparso in quella in italiano del 2014, era: “Animal Infections and the Next Human Pandemic”… perciò eccoci qua.
Quammen spiega già quasi tutto, perciò riprendiamo un pezzo significativo del testo:
“Prima di reagire in modo calmo o isterico, con intelligenza o stupidamente, dovremmo conoscere almeno le basi teoriche e dinamiche di quel che è in gioco. Dovremmo sapere che le recenti epidemie di nuove zoonosi, oltre alla riproposizione e alla diffusione di altre già viste, fanno parte di un quadro generale più vasto, creato dal genere umano. Dovremmo renderci conto che sono conseguenze di nostre azioni, non accidenti che ci capitano tra capo e collo. Dovremmo capire che alcune situazioni da noi generate sembrano praticamente inevitabili, ma sono ancora controllabili.
Gli esperti hanno già indicato questi fattori ed è pertanto facile elencarli. Abbiamo aumentato il nostro numero fino a sette miliardi e più, arriveremo a nove miliardi prima che si intraveda un appiattimento della curva di crescita. Viviamo in città superaffollate. Abbiamo violato, e continuiamo a farlo, le ultime grandi foreste e altri ecosistemi intatti del pianeta, distruggendo l’ambiente e le comunità che vi abitano. A colpi di sega e ascia, ci siamo fatti strada in Congo, in Amazzonia, nel Borneo, in Madagascar, in Nuova Guinea e in Australia nordorientale. Facciamo terra bruciata, in modo letterale e metaforico. Uccidiamo e mangiamo gli animali di questi ambienti. Ci installiamo al posto loro, fondiamo villaggi, campi di lavoro, città, industrie estrattive, metropoli. Esportiamo i nostri animali domestici, che rimpiazzano gli erbivori nativi. Facciamo moltiplicare il bestiame allo stesso ritmo con cui ci siamo moltiplicati noi, allevandolo in modo intensivo in luoghi dove confiniamo migliaia di bovini, suini, polli, anatre, pecore e capre – e anche centinaia di ratti del bambù e zibetti. In tali condizioni è facile che gli animali domestici e semidomestici siano esposti a patogeni provenienti dall’esterno (come accade quando i pipistrelli si posano sulle porcilaie) e si contagino tra di loro. In tali condizioni i patogeni hanno molte opportunità di evolvere e assumere nuove forme capaci di infettare gli esseri umani tanto quanto le mucche o le anatre. Molti di questi animali li bombardiamo con dosi profilattiche di antibiotici e di altri farmaci, non per curarli ma per farli aumentare di peso e tenerli in salute il minimo indispensabile per farli arrivare vivi al momento del macello, tanto da generare profitti. In questo modo favoriamo l’evoluzione di ceppi batterici resistenti. Importiamo ed esportiamo animali domestici vivi, per lunghe distanze e a grande velocità. Lo stesso avviene per certi animali selvatici usati in laboratorio, come i primati, o tenuti come esotici compagni. Commerciamo in pelli, contrabbandiamo carne e piante, che in certi casi portano dentro invisibili passeggeri patogeni. Viaggiamo in continuazione, spostandoci da un continente all’altro ancora più in fretta di quanto faccia il bestiame. Dormiamo in alberghi dove magari qualcuno prima di noi ha starnutito o vomitato. Mangiamo in ristoranti dove magari il cuoco ha macellato un porcospino prima di pulire i nostri frutti di mare. Visitiamo templi pieni di scimmie in Asia, mercati in India, paesini pittoreschi in Sudamerica, siti archeologici polverosi in Nuovo Messico, fattorie nei Paesi Bassi, grotte piene di pipistrelli in Africa orientale, ippodromi in Australia – e ovunque respiriamo la stessa aria, diamo da mangiare agli animali, tocchiamo tutto, diamo la mano ai simpatici abitanti del luogo. Poi risaliamo su un bell’aereoplano e torniamo a casa. Siamo punti da zanzare e zecche. Cambiamo il clima del globo con le nostre emissioni di anidride carbonica e spostiamo le latitudini a cui le suddette zanzare e zecche vivono. Siamo tentazioni irresistibili per i microbi più intraprendenti, perchè i nostri corpi sono tanti e sono ovunque.”
Ecco; “…Le circostanze ambientali forniscono opportunità per gli spillover. L’evoluzione le coglie, esplora le potenzialità e dà gli strumenti per tramutare gli spillover in pandemie.”
Se c’è una cosa “positiva” dentro il caos biopolitico di questi giorni e di questa pandemia da coronavirus è quello di ricordarci che siamo pur sempre una specie immersa dentro un insieme evolutivo.
Se la nostra tecnologia ci ha permesso di mettere a punto armi dissuasive o letali contro l’animale o il nemico che ti mangia e ti attacca da fuori, non così è per quello che ti mangia da dentro, e i nostri corpi, grandi, longevi, ubiqui, e soprattutto tanti, sono, dal punto di vista del microbo, un ottimo ambiente, un ospite appetibile.
Questo essere tanti testimonia poi, di un’esplosione, come scriveva nel 1987 Alan Berryman, sempre citato da Quammen: “dal punto di vista ecologico, un’esplosione si può definire come un estremo aumento della numerosità di una determinata specie che avviene in un intervallo di tempo relativamente breve… da questo punto di vista, la più seria esplosione verificatesi sul pianeta Terra è quella della specie Homo sapiens”.
Quando lui scriveva questo, il mondo contava cinque miliardi di persone, risultato dalla moltiplicazione di un fattore 333 dall’invenzione dell’agricoltura, di un fattore 14 dalla fine della pandemia di peste nel trecento, di un fattore 5 dalla nascita di Darwin, e raddoppiati ancora negli anni della vita di Berryman…
Quindi siamo davvero un fenomeno unico nella storia dei mammiferi e dei vertebrati in genere… nessun altro primate ha pesato così tanto sul pianeta, neanche lontanamente. In termini ecologici siamo quasi paradossali: animali di grande corporatura e molto longevi, ma assurdamente numerosi. Siamo un’esplosione, come una pandemia.
Certo, rovesciare la prospettiva è un giochetto banale, non serve a risolvere il problema, ma forse aiuta a capire se lo si può correggere per le volte a venire, perchè abbiamo capito che di spillover ce ne saranno e sempre più frequenti.
Come possono gli spillover non essere in relazione con la sigla HIPPO coniata a suo tempo da Edward O. Wilson: Habitat destruction, Invasive species, Pollution, human over-Population, Overharvesting by hunting and fishing?
Fenomeni correlati e diversi: Iperfenomeni quelli di hippo, nei quali siamo completamente immersi, per i quali moriamo (anche a grandi numeri) ma senza accorgerci; fenomeni puntuali gli altri, quelli della malattia individuale ed individuabile nell’immediato per causa ed effetti. Indifferenza per gli uni, paura, allarmismo, terrore per gli altri. Ciò che fanno i microbi e ciò che facciamo noi.
Esempio: in Cina si stimano 1,2 milioni di morti l’anno per inquinamento atmosferico; circa 2.700 al giorno; a tutt’oggi sono 3000 in 3 mesi di epidemia i decessi da coronavirus; in Italia sono 84.000 le morti annue per esposizione a particolato sottile (dati Agenzia Europea per l’Ambiente); quanti saranno da coronavirus, ancora non lo sappiamo, sappiamo che fino ad oggi sono 107.
E’ chiaro che ogni fenomeno va preso e gestito per se stesso, la comparazione serve solo a ricordarci che ci vorrebbe attenzione per entrambi, soprattutto laddove l’uno può essere concausa dell’altro; per tornarlo a dire con Quammen o Wilson, gli spillover sono talvolta una conseguenza delle alterazioni prodotte sull’ambiente… il gatto si morde la coda… e ingoia le proprie pulci.