Quella voce delle donne
Onde sonore fuori dal palazzo.
Sulla suggestione dell’incontro con Sainkho artista della Repubblica di Tuva (Repubblica autonoma dell’attuale Federazione Russa, bioregione della Siberia centromeridionale, ai confini con la Mongolia), cantatrice della tradizione sciamanica, maestra del canto armonico, creatrice di mescolanze fra suoni antichi e tecnologici, ci è tornato in mente un testo di Adriana Cavarero: “A più voci – filosofia dell’espressione vocale”*.
In quel testo si richiama, a sua volta, un racconto di Italo Calvino nel quale si narra di un re che siede immobile sul trono assediato dalla logica del suo stesso potere che lo costringe ad un’ unica attività: il controllo acustico del regno.
Una vigilanza uditiva costante per captare i suoni che si diffondono nelle stanze del palazzo (e della politica) e per discernerli come suoni del sospetto, dell’assedio, del complotto; sono suoni freddi, vitrei; come la morte è il suono del potere emesso dalle gole della corte, non più capaci di raccontare l’organo e la storia dal quale provengono. Sono suoni, pur senza parole, codificati negli spartiti del dominio.
Non sono “l’ugola, la saliva, l’infanzia, la patina della vita vissuta, le intenzioni della mente, il piacere di dare una propria forma alle onde sonore…”Poi, nel racconto, da fuori del palazzo si ascolta il canto di una voce di donna, un canto emesso dalla vibrazione di “una gola di carne”… fuori dalla politica, dal potere, dentro un corpo che vibra con l’aria che lo attraversa e che modula l’aria dalla quale è attraversato.
Di Sainkho si scrive: Tutta intessuta di luce, di spazi, di tempo, la voce della siberiana Sainkho ha caratteristiche timbriche che la rendono unica. Limpida come acqua di sorgente, spazia dai suoni acuti a quelli piu’ gravi con un’estensione prodigiosa, acquista singolare intensita’ per improvvisi cambiamenti di vibrazioni, alterna trasparenze a toni densi e scuri e con un effetto sbalorditivo, si effonde con una doppia emissione di toni uniti fra loro da un legame armonico.
E’ in questa descrizione che ci viene in mente la donna che canta fuori dal palazzo.
Un canto non necessariamente di parole. Poichè la voce è suono, prima che parola.
E qui si apre un altro mondo di suggestioni.
Intanto di quello che la macchina patriarcale -che tiene in vita le stanze del palazzo del re- ha fatto del suono e della parola; del vocalico e del semantico.
Scrive Cavarero: “…Secondo la tradizione, il canto si addice alla donna ben più che all’uomo, soprattutto perchè tocca a lei rappresentare la sfera del corpo in quanto opposta a quella ben più importante dello spirito. Sintomaticamente l’ordine simbolico patriarcale che identifica il maschile con il razionale e il femminile con il corporeo, è lo stesso che privilegia il semantico rispetto al vocalico. Detto altrimenti, anche la tradizione androcentrica sa che la voce viene dalla “vibrazione
di una gola di carne” e, proprio perchè lo sa, la cataloga nella sfera corporea – secondaria, caduca e inessenziale – riservata alle donne. Femminilizzati per principio, l’aspetto vocalico della parola e, tanto più, il canto compaiono come elementi antagonisti di una sfera razionale maschile che si incentra, invece, sull’elemento semantico. Per dirla con una formula: la donna canta, l’uomo pensa.”
E, aggiungiamo, nel logocentrismo patriarcale la donna che canta, canta per sedurre (che il vocabolario ci dice: distogliere dal bene con lusinghe e allettamenti, traviare) e distruggere (il canto delle sirene).
Ma qui siamo fuori dal palazzo, i suoi canoni e le sue leggi sono inutili; la voce che canta ha invece una funzione rivelatrice. Anzi, più che rivelare essa comunica.
Ciò che comunica è l’unicità vera , vitale e percepibile di chi la emette. Non si tratta perciò di una comunicazione chiusa nel circuito fra la propria voce e il proprio orecchio, bensì di un comunicarsi nell’unicità che è, al tempo stesso, una relazione a un’altra unicità.
Questa è una chiave fondamentale per aprir/si all’altr* e ai fluidi sonori che investono / trafiggono /attraversano.
Allora il suono è ontologico, il suono racconta di chi lo emette, della persona, del sesso, dell’essere, del mondo, della natura, della biosfera.
Il canto armonico di cui Sainkho si fa interprete è la via della natura per comunicare con gli altri esseri.
Il logocentrismo patriarcale è sordo, il linguaggio del potere, della politica, non ha orecchi per questo; si sente e si vede nel disastro ambientale del nostro intorno; il re del racconto di Calvino è assordato dai clangori delle sue tecnologie di guerra, dai suoni sinistri del suo palazzo.
Mentre fuori la vita vibra dalle sue più infinitesimali strutture, dal farsi delle proteine (**), al costruirsi dei corpi, degli esseri e della loro unicità.
La donna che canta coglie la diversità, regala la sua, la mette in comunicazione nella rete di relazioni e di suoni, poiché “La Voce canta dal tempo prima della legge, prima che il Simbolico porti via il respiro e lo catturi entro il linguaggio sotto la sua autorità di separazione”. (***)
(*) Adriana Cavarero “A più voci – Filosofia dell’espressione vocale”, Milano Feltrinelli 2003
(***) Hèlène Cixous in Cavarero, op. cit. pg. 154