Reputazioni
E’ iniziata la fase due, intorno al corpo di Alina sequestrata, rinchiusa e suicidata in una cella del commissariato di Opicina. Lo abbiamo capito ascoltando il telegiornale regionale di ieri sera, ne abbiamo conferma dalla lettura del Piccolo di oggi.
La fase due riguarda la demolizione della reputazione della vittima e la ricostruzione della reputazione del o degli indagati.
I cronisti del TG si sono premurati di informarci che Alina, al suo paese, era già stata condannata per omicidio; una vita un destino, e pace all’anima sua.
I giornalisti locali ci avvisano di altrettanto e fanno scivolare il nostro occhio piano piano e dolcemente dall’osservare il contesto della sua morte, che si chiama sequestro di persona in un commissariato, allo stato d’animo della persona terrorizzata dal ritorno in patria per la paura del ritorno in carcere. Perciò “Ora è chiaro perché Alina Bonar Diachuk, arrestata nel giugno scorso a Gorizia, ha messo fine ai propri giorni all’interno del commissariato di Opicina dov’era rinchiusa anche se la Magistratura ne aveva ordinato la liberazione. Lei temeva di dover ritornare in carcere una volta rimpatriata forzatamente in Ucraina…”
Adesso abbiamo le spiegazioni e così finiremo di pensare alla sua morte.
Quindi sistemata la reputazione, ovvero sanciti i trascorsi da galera dell’una, resta da rimettere in piedi la reputazione dell’altro; niente di più facile se non il comunicato di colleghi o sindacalisti uno dei quali osserva che il caso di Alina «doveva essere un momento di riflessione e correzione delle prassi di trattamento degli stranieri in attesa di espulsione”, non commentiamo la rozzezza di una frase che è perfino autoaccusatoria, ci chiediamo semplicemente che cos’è, se non è “sbavatura ispirata ideologicamente”, il cartello “Ufficio Epurazione” che lo scrivente sindacalista, se fosse stato extracomunitario, sequestrato o meno, in attesa di espulsione, si sarebbe trovato davanti in quelle stanze nel commissariato di Opicina…
E’ Maria Dina, compagna di cella di Alina, quella che in questo schifo rimane umana, quella che la piange con la madre e la sorella, quella che si occuperà delle spese e della sepoltura perché loro due non ce la fanno, quella che cercherà un posto per Alina, un posto che il Comune di Milano ha rifiutato, “ma forse qui in Friuli, in qualche paese, c’è una possibilità. Altrimenti il corpo potrebbe essere cremato e le ceneri consegnate alla madre e alla sorella che vivono in Italia. E questo forse potrebbe essere l’unico modo perché Alina rimanga nel nostro Paese. Le ceneri non saranno mai espulse e nemmeno imprigionate in un commissariato».
Qui gli articoli che le/i compagne/i giustamente continuano a riportare sotto il titolo “Suicidi di Stato”.
Qui quello che avevamo scritto, perché continueremo a guardarli in faccia.