Guardiamoli in faccia
Alina morì impiccandosi con il cordone del cappuccio della sua felpa alla finestra di una cella del commissariato di Opicina, sotto l’occhio vigile di una telecamera.
La sua agonia è durata quaranta minuti.
Alina era uscita dal carcere il sabato mattina dopo 10 mesi di reclusione, a seguito di una condanna congiunta a decreto di espulsione; Alina avrebbe dovuto essere “rispedita” in Ucraina, ma quel sabato uscì da donna libera, nessun decreto le era ancora stato notificato; ci avrebbero pensato il lunedì mattina.
All’uscita dal carcere però Alina trova ad aspettarla una volante che se la prende, cioè la sequestra, e la porta al commissariato di Opicina, la chiude in una cella e la lascia lì.
La sua morte è trasmessa dal monitor sul banco del piantone; nessuno la guarda.
Quando accadde, ne parlammo qui.
Era lo stesso giorno in cui qualcuno su un aereo riprese quei pacchi umani sigillati con il nastro adesivo, e quelle immagini sono state più eloquenti di qualsiasi accusa, per chi ha la coscienza ancora viva, naturalmente.
Le/i compagne/i che su Infoaction tengono la rassegna stampa, oggi hanno aggiunto la notizia della perquisizione all’abitazione del dirigente dell’ufficio immigrazione indagato per omicidio colposo e sequestro di persona per la morte di Alina.
Racconta il giornale locale di Trieste che quel dirigente si chiama Carlo Baffi, che nel suo ufficio il fermacarte è ornato dal fascio littorio e c’è un cartello con scritto “Ufficio Epurazione”, che nella sua casa ci sono libri come «Mein Kampf», «La difesa della razza». «La questione ebraica», «Come riconoscere e spiegare l’ebreo», e poi un poster del duce. Qui l’articolo.
Dovremmo stupirci di qualcosa? Noi no; nemmeno della linea difensiva che, abbiamo già capito, è il ritratto di un appassionato di storia …, che le fonti originali…, che i cimeli… i mercatini… ecc. ecc. bla bla, tutto inserito sulla consolidata strategia di sdoganamento del fascismo che si nasconde dietro l’esibizione di chicche storiche che tutt* sappiamo bene cosa significano ma che nessun* ha il coraggio di perseguire.
E la morte di Alina? Alina aveva già tentato il suicidio in carcere, e questa, per noi, è un’aggravante per chi l’ha messa nelle condizioni di provarci di nuovo e per chi l’ha lasciata morire.
Lei era in libertà, voleva prendere un treno e andare a Milano, non voleva tornare in Ucraina.
Ma a lei, a certe donne e certi uomini, succede questo, che possono essere presi, trattenuti, internati e rispediti là da dove sono venuti o a morire a mare o in qualche deserto di sabbia o di vita, non fa differenza.
Così Alina l’avevano destinata al cie di Bologna.
E se non fosse stata sequestrata, se la procedura fosse stata regolare, nulla comunque, sarebbe stato migliore anche se sarebbe stato legale, perché le leggi sui cie sono leggi orrende. Che dire delle persone che le hanno concepite e pensate? e di quelle che le dovrebbero applicare?
Oggi ci rimettiamo alla cronaca del “Piccolo”. Uno lo possiamo vedere, descritto nei particolari.